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TERRAFORMA Scuola d'Arte Ceramica

NEL VIVAIO POESIA DEI SENSI

Repubblica — 13 luglio 2006 pagina 11 sezione: ROMA

Stretta e fiancheggiata da un lungo muro consumato dal tempo, via di Santa Balbina è un frammento del passato di Roma arrivato perfettamente indenne fino ai nostri giorni, una specie di incantevole e ombroso fossile urbano. E' il tipico scorcio di Roma che faceva impazzire i turisti più raffinati, stile Henry James, ai tempi in cui da queste parti, tra le terme di Caracalla e la cerchia delle mura aureliane, si andava a passeggiare a cavallo. I muri nascondevano i filari delle vigne, le piccole osterie con le loro pergole fiorite, chiese e conventi perpetuamente immersi nella loro bolla di silenzio. Ancora oggi, percorrendo le poche strade pubbliche, è facile essere frustrati dalla curiosità, perché non sempre è possibile capire quali mondi segreti si aprano al di là delle mura e dei cancelli. I punti di riferimento, all' ingrosso, sono chiari, ma bisognerebbe essere un uccello per farsi un' idea veramente esatta della zona. Per quanto mi riguarda, se fossi un uccello in volo da queste parti e in fuga dal chiasso terrorizzante della Cristoforo Colombo, planerei per riposarmi sulla folta macchia dei boschetti di bambù del vivaio «Le Mura», il cui cancello si apre proprio all' inizio di via di Santa Balbina. Se non si ha la fortuna di possedere delle ali, però, per visitare il vivaio basta suonare il citofono. E non c' è nemmeno bisogno, per essere indotti alla visita, di possedere il famoso pollice verde, perché questo posto, aperto nel 1978 da Giuseppe Marrocco, è davvero un speciale: un frammento di utopia in forma di vivaio. QUI RISPETTIAMO LA NATURA, avverte un vecchio e ormai stinto cartello vicino all' entrata, NO VELENI DISERBANTI PESTICIDI. «Quando ho iniziato», ci confida Giuseppe, questi non erano temi conosciuti come oggi. Ma avevo degli amici che lavoravano nel settore chimico, morti di malattie gravissime». Mentre contempliamo un bellissimo sorbo, con le sue bacche ancora acerbe, ci raggiunge anche Nicoletta Sauve, che si occupa del laboratorio di ceramica funzionante all' interno del vivaio, frequentato da molti non vedenti. E' con il loro aiuto che è stata realizzata un' invenzione semplice e geniale: un itinerario attrezzato e dotato di targhette in braille che permette una visita completa del vivaio. Un lungo corrimano di bambù fiancheggia a questo scopo i viali di ghiaia che attraversano gli spazi coltivati, a volte attraversati da galline e conigli lasciati liberi, «proprio come in campagna». La varietà delle piante esalta le capacità degli altri sensi che si sostituiscono alla vista che manca: l' olfatto, il tatto, l' udito. Al termine dell' itinerario, si accede, superata una staccionata, al «Giardino Orientale», dove attorno a un laghetto fanno mostra di sé decine di bonsai, una sorta di foresta in miniatura con esemplari da fare invidia anche alle più ricche collezioni giapponesi. Accanto al laboratorio di ceramica, quello dove si insegna la creazione e la coltivazione dei bonsai è l' altro punto forte delle attività del vivaio, ed anche in questo caso sono stati coinvolti molti non vedenti. E' in questo luogo di pace assoluta, che suggerisce almeno un' idea di frescura anche nella calura di luglio, che ci accomodiamo a discutere, con Giuseppe e Nicoletta, delle ombre che gravano sul futuro del vivaio. Non le ombre dei pini che danno sollievo nella calura: stavolta si tratta di tristi e minacciose ombre burocratiche, che si sono allungate, implacabili, fino all' esito di uno sfratto esecutivo, che sul calendario porta la data di oggi, 13 luglio 2006. «Ma da qui», assicura Giuseppe, «mi potranno portare via solo con la forza». E' un lungo contenzioso, quello che oppone il vivaio all' Istituto Santa Margherita, un ente di beneficenza che si occupa di anziani, e che a sua volta dipende dalla Regione. La battaglia dura ormai dal 1993 e Giuseppe, che ha sempre pagato regolarmente l' affitto, ha solo da rimproverarsi qualche svista burocratica. «Ma io sono un coltivatore, e lavoro qui al vivaio dalle cinque di mattina alle otto di sera, da quasi trent' anni. Non si può pretendere che una persona che fa il suo lavoro poi sappia fare anche l' avvocato!». Fatto sta, che di carta bollata in carta bollata, si è arrivati a questo punto, senza che a Giuseppe sia stato permesso una sola volta incontrare a quattr' occhi la sua controparte, per cercare un compromesso e spiegare le sue ragioni. «E poi», aggiunge, «cosa significa sfrattare un' attività come questa ? Con tutti i vincoli che esistono in questa zona di Roma, non so nemmeno immaginare un uso migliore per questo terreno. Il quale non è mio, certo, ma tutto quello che ci ho piantato sopra ? Dove e come posso trasferirlo ?!?». A volte, mentre riprendiamo a passeggiare per il vivaio, la passione per le piante riprende il sopravvento, spazzando via le preoccupazioni legali e il brutto presentimento che tutto ciò che vediamo abbia le ore contate. Giuseppe ci mostra gli innesti che ha fatto su un fico selvatico, ottenendo una varietà di frutti ormai sparita da moltissimo tempo dalla circolazione, e dotata di un lunghissimo picciolo. Era questa la varietà di fichi preferita dagli antichi romani, come si sa espertissimi di raffinatezza alimentare. In una gabbia lì vicino, una nidiata di pulcini sta al riparo dal sole e soprattutto dagli artigli dei falchi, che calano in cerca di preda sul vivaio, che anche dal punto di vista della catena alimentare non ha niente di diverso da un pezzo di campagna vero e proprio. In una bacheca vicino all' entrata del «Giardino orientale», leggiamo qualche ritaglio di giornale che documenta varie fasi della lotta per la sopravvivenza del vivaio. Molti sono stati nel corso del tempo gli attestati di solidarietà e le offerte di aiuto, ma un cartello appeso vicino ai ritagli di giornali porta stampata la fatidica data dello sfratto, 13 07 2006, è avverte che la situazione è peggiorata. Mentre ci avviamo verso l' uscita, io mi metto a frugare nei miei confusi ed incerti ricordi di mitologia. Dovrà pur esistere, nel ricchissimo e variegato pantheon degli antichi romani, un dio protettore dei vivai, un dio campestre forse non di primo rango, ma capace di stornare le minacce che incombono su un luogo come questo. E se un dio del genere non è mai esistito, o è andato in pensione da troppo tempo, c' è solo da sperare che la buona volontà umana eviti a tutte queste piante ed alberi e ai loro custodi di fare le valige per chissà dove. - EMANUELE TREVI

E a lezione di ceramica creano i cartelli in braille dal Corriere della Sera

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L' ALTRA ATTIVITÀ

E a lezione di ceramica creano i cartelli in braille


«Le piastrelle in ceramica del percorso botanico le abbiamo fatte noi» rivela orgogliosa Franca Bernardi, mentre modella alcune foglie di ciliegio con l' impasto grigio. Sul tavolo da lavoro, a portata di mano, c' è il modello vero da emulare che di tanto in tanto sfiora. A portata di mano perchè gli allievi del corso di ceramica di Nicoletta Sauve, da cinque anni, sono tutti non vedenti dell' Unione Italiana Ciechi. Tre lezioni a settimana di tre ore ciascuno per modellare, creare, liberare la fantasia con la creta: «Insegno anche la lavorazione del gesso e la pittura, che per loro è particolarmente difficile - spiega Nicoletta Sauve - ma alcuni allievi riescono persino ad usare gli "ingobbi", cioè colori da preparare miscelando le polveri». C' è perfino chi si diverte molto «a modellare piccoli gruppi di personaggi, volti o animali», come confessa Franca: «ho quasi finito un caimano da mettere nel laghetto, qui in giardino». Sul fondo della sala sono esposte alcune creazioni. «La soddisfazione più grande? - aggiunge Rossella - fare cose che i vedenti pensano non siamo in grado di fare».
Testa Silvia
Pagina 17
(28 aprile 2006) - Corriere della Sera